Dico la mia.
Lo vidi quando uscì al cinema, uscendo dalla sala provai una piacevole sensazione. Dopo anni di mediocrità, appiattimenti sulle classiche storielle di sentimenti fra adolescenti, storie di generazioni disgraziate in crisi di identità, precariato e figure di donne più o meno adulte (tralasciando i cinepattoni), il cinema italiano ha ritrovato un regista capace di emozionare con la forza dell'immagine, che è ciò che il Cinema deve fare.
La storia raccontata non discosta molto dai film dei grandi del passato che raccontano il bel(?)paese, ed è questo che in fin dei conti La Grande Bellezza è: uno spaccato sull'alta borghesia nella quale l'effimero soppianta il futuro, un'accusa.
Accusa allround a coloro che hanno fatto e continuano a far decadere l'Italia, sia nei modi che nei costumi che nella moralità. Sorrentino punta il dito su chi ha levato la speranza, sessantenni presi più dalla mondanità, dall'apparire, che hanno preso più del possibile senza cercare di costruire un futuro creandosi una vita di scuse e di autocompiacimento dell'io (il litigio sul divano fra Gep e la "compagna" Stefania e la scena del chirurgo plastico).
Accusa alla chiesa, coinvolta e partecipe del declino con suore che si preoccupano della sudorazione delle mani e futuri papi che deliziano gli astanti con ricette. Accusa a genitori, incapaci di aiutare i figli o peggio istigatori di tutto questo disfacimento, chiusi nel proprio benestare e ottusi alle richieste di aiuto, convinti che i soldi siano la soluzione ai problemi.
Gep (ed anche Verdone) è il mezzo tramite cui l'accusa viene lanciata. Colui che avrebbe potuto essere un grande relegato a critico letterario per l'essersi adagiato nei salotti, la persona di cui tutti hanno bisogno alle feste e che ha nel suo intento l'essere colui che "può far fallire le feste", simbolo del tutto e subito senza preoccuparsi del modo.
La Ferilli è uno dei pochi personaggi positivi, inadeguata agli altri e presa dal guadagnare per curarsi. Colei che lotta per ribellarsi al destino, un raggio di sole in mezzo ad un film intriso di disillusione puntualmente ricoperto dalle nuvole.
L'incipit della rappresentazione dell'"artista" che tira la capocciata è un pò il sunto di tutto, io sono artista e facco il cazzo che mi pare, tu sei un critico in malafede. E l'arresto dello sprezzante vicino Moneta, mafioso che "mentre voi vi divertite la gente come me manda avanti il paese".
Non è un film semplice, per niente. Penso che l'oscar sia arrivato un pò per caso, grazie ad una fotografia mostruosa e alla grande interprete che è Roma. Agli americani l'Italia piace perchè ha la storia, l'arte e la cultura ovvero ciò che loro non potranno mai avere ed invidiano e ciò a cui noi sembriamo non tenere più, occupati a rigovernarsi i post sbronza o presi a dare dietro ad una stronza cocainomane, ma secondo me è l'italiano colui che lo dovrebbe apprezzare di più.
Sorrentino, insieme a Garrone, son le punte di diamante del nuovo cinema mainstream italiano: raccontano (e a mio avviso lo fanno bene) storie all'apparenza scontate che così scontate non sono. Danno un respiro più ampio "europeo" al nostro cinema. Vero è che brillano in mezzo ad una pochezza impressionante (per citarne uno, il sopravvalutato Ozpetek). Apprezzati soprattutto all'estero in quanto in Italia, per invidia o snobbismo o semplice ignoranza, non riusciamo mai a godere appieno ciò che si ha salvo piangere quando non c'è più.